Scrivono per noi

L’Italia alla conquista del Mondo

Il vino italiano, nel mondo, è un fenomeno complesso come pochi: in gioco ci sono immagine, cultura e orgoglio nazionale. Avete presente un panetto di plastilina, quella con cui da sempre giocano i bambini? Ecco, questo è il mondo del vino italiano nelle analisi dell’export. Un fenomeno che ognuno approccia e racconta come vuole, a seconda del suo punto di vista, dal suo ruolo o semplicemente dai suoi interessi in causa. Oggi si sente un telegiornale annunciare che l’Italia è il primo produttore mondiale, domani si legge del costante surplus produttivo e della necessità di nuove politiche di espianto. Oggi si gode della notizia che le bollicine italiane sono al primo posto e domani che il loro prezzo medio è un sottomultiplo di quelle francesi. Continue docce scozzesi che possono mandare in confusione anche il più navigato dell’addetto ai lavori e che, solo nel loro insieme fotografano uno dei settori più complessi e articolati dell’economia agraria e forse non solo agraria, del nostro Paese.

Non aiutano la polverizzazione dell’offerta tra decine di migliaia di produttori, spesso piccolissimi, ne una piramide della qualità che non ha mai rappresentato la realtà, tutta ingarbugliata com’è da un proliferare di denominazioni di origine spesso dettate da miopi localismi ed elargite senza alcuna visione complessiva.

E’ quindi importante cercare di capire la percezione del vino italiano e l’evoluzione del suo stile soprattutto in considerazione dell’impressionante crescita dei consumi di vino nel mondo, non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa.

 

Non siamo i soli e nemmeno in pochi. A produrre vino di qualità non c’è solo la vecchia Europa e non ci sono più solo California, Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia. Gli orizzonti si sono allargati con il duplice effetto di far crescere la cultura enoica dei loro consumatori e quello di renderli sempre più attenti e critici nei confronti dei vini provenienti dall’estero. India e Cina, ad esempio, hanno già raggiunto quantità rilevanti, mentre Europa Orientale e Sud America affilano le armi e compilano bolle doganali.

Stesso fenomeno, inevitabilmente, per la comunicazione del vino e di conseguenza sviluppo di nuove tendenze. Sono quindi da cancellare alcuni luoghi comuni: i principali mercati di sbocco del vino italiano, come Stati Uniti, Canada e Inghilterra, non sono per nulla costituiti da consumatori standardizzati o turlupinabili. Almeno non più di quanto possa avvenire all’interno dei nostri confini.

La teoria per cui all’estero si debba mandare vino semplice purchè l’azienda abbia un minimo di notorietà regge sempre meno. Il tutto in un sistema di industrializzazione del vino che domina il grosso delle quantità e che ha portato ad avere regole del gioco analoghe a quelle di qualsiasi altro prodotto alimentare dove le differenze di prezzo, seppur minime, divengono decisive.

Quindi, almeno in questi mercati più evoluti, le strade sono due: o si vende a prezzi competitivi o si producono vini con una propria identità stilistica e culturale. La prima strada è ovviamente senza ritorno, mentre le seconda resta quella più faticosa ma di più probabile successo per il futuro.

Del resto, il processo di livellamento dei vasi comunicanti della conoscenza, partito da un bel po', è ormai inarrestabile.

 

Chiunque decida di affrontare l’export, non può prescindere da un’approfondita analisi della tavolozza a due colori, ma con tante sfumature: il sempreverde modello parkeriano anni novanta e il secondo, quello più recente con in primo piano freschezza e bevibilità. Il primo è ancora dominante sui mercati, in particolar modo quelli emergenti, dove le parole d’ordine restano concentrazione, alcool, legno e struttura caratterizzato da masticabilità e avvolgenza. L’altro modello, nato come ricerca dell’acidità e alleggerimento delle strutture, sta ospitando invece al suo interno molte sub fazioni, stilistiche e produttive.

Quindi la conoscenza dei mercati e della cultura enoica che si va ad affrontare è il vero fattore decisivo per avere qualche risultato. Se ad esempio l’acquirente della Cina chiederà burrosità e dolcezza nel vino, il buyer americano si soffermerà sulla storia e sulla particolarità del vitigno mentre quello australiano chiederà durezze.

 

Ma quindi, quali le armi a disposizione per il vino italiano?

La prima e la più importante resta sempre la famiglia. Le vendite all’estero si sono sempre basate sulla presenza di connazionali in tutti i paesi. Le bottiglie tricolore sono andate nei quattro angoli del mondo  soprattutto per accompagnare la presenza di gastronomie e negozi italiani. Una spina dorsale viva e solida: è partendo dai ristoranti che una nuova cultura del vino può svilupparsi. E il peso del vino italiano non è mai stato così consistente come negli ultimi anni: non c‘è copertina internazionale che non vi abbia dedicato una pagina.

 

Bisogna quindi fare sistema. La frammentazione delle iniziative assieme a una politica di elargizione delle denominazioni ha portato a una confusione sui mercati che non aiuta a penetrare nuovi paesi e che non contribuisce a creare valore. Pochi grandi nomi italiani, hanno saputo imporre il proprio marchio e dare sbocchi alle proprie produzioni finendo per essere i portavoce dell’intero sistema del vino della nostra penisola. Modelli da elargire ad icona nel modo di porsi all’estero.

Senza mai dimenticare che un qualunque operatore francese, produttore o sommelier, non parlerà mai male dei grandi Château presenti nel proprio territorio. Anzi, si appoggerà alla loro immagine, parlerà per somiglianze o differenze, e non ne metterà mai indubbio la grandezza.

Succede così anche da noi? Pensiamoci bene, prima del prossimo viaggio.