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Il vino in miscelazione

I cocktail sono il centro di un curioso mondo che ruota attorno ai banconi dei migliori bar, non solo di Caracas. Più che un prodotto, sono uno stile di vita, ottimi compagni nei quali annegare i propri dispiaceri, con cui dare brio a un party o brindare a una serata, da soli o in compagnia. Pre-dinner, after-dinner o any-time, sono perfetti per tutti i momenti della giornata.

Nati da leggende, i cocktail hanno fatto più volte il giro del mondo, arricchendosi di nuove storie, dettagli, ingredienti, sapori. E l’idea di usare il vino nei cocktail che a qualcuno potrebbe causare un mancamento un po’ come accade ai cinefili sentendo proporre una riedizione a colori di Casablanca, è in realtà un matrimonio più comune di quanto sembri.

Non è forse uno Champagne Cocktail quello che Victor Laszlo bevve al tavolo con Berger? In un bar del Marocco, insomma, lo champagne sposava senza imbarazzo gin e cognac già nel 1942 e, unioni così laiche erano in corso da tempo.

A Bordeaux, alla fine dell’Ottocento, i fratelli Lillè, seguirono una felice intuizione che li avrebbe portati a creare il Kina Lillet (oggi sostituito da Lillet Blanc): vino bianco, liquore a base di frutta macerata, chinino e alcune spezie. La fama arriva nel 1953 con Casino Royale: James Bond inventa di sana pianta il Vesper dedicandolo alla bella Vesper Lynd, un cocktail con “tre parti di gin, una di vodka e mezza di Kina Lillet”.

Un rapporto molto stretto, lega inoltre vino, cocktail e guerra. Pare sia stato l’insopprimibile spartachismo che covava nell’animo un uomo di religione a far deflagare uno degli accoppiamenti giudiziosi più noti della storia: il Kir. Storica contaminazione tra vino e liquore, sembrerebbe nato dall’iniziativa di Felix Kir, un prete cattolico di Digione che, oltre ad aiutare più di quattromila prigionieri di guerra a fuggire, decise di colorare con la rossa crème de cassis, i bianchi da aligotè, rimpiazzando i vini rossi sequestrati dalle camicie brune ed elevando una bevanda a simbolo di ostinata resistenza. Una bella storia che però rimane tale: seppur domiciliato a Digione, il Kir avrebbe una data di nascita più vecchia di quarant’anni. Fu infatti un giovane cameriere nel 1904, al banco del caffè George a dar vita alla bevanda e a consegnarne la paternità al futuro sindaco di Digione.

Anche il French 75’ è legato a vicende belliche. Quando fu codificata non ospitava vino ma una ricetta molto simile del passato lo conteneva eccome. A Boston, lo scrittore Charles Dickens offriva nelle sue stanze del Parker House Hotel una bevanda a base di champagne e gin. Bevanda analoga era diffusa nell’India coloniale, il King’s Peg, così noto da compatire nel 1890 in un racconto di Kipling, dove si precisa perfino la marca dello champagne.

La notorietà di questo cocktail travalicò presto le trincee: al pari del vino infatti, i cocktail sono creature vive, sensibili ai cambiamenti e interpreti della storia. Spesso l’origine si perde nelle nebbie del passato, fin quando la brillante iniziativa di un individuo ne assegna un nome fissando una posticcia data di nascita a una creatura semmai viva da decenni.

Vuole infatti la leggenda che fu il barman dell’Henry’s Bar di Parigi a mescolare gin, brandy di mele, granatina e succo di limone battezzandolo French 75. Negli anni 20’, stemperati i bollori del conflitto, lo champagne ritorna, sostituendo granatina e brandy. In quegli anni infatti lo champagne è il grande protagonista del bere miscelato. Nel 1925, al Ritz di Parigi, il barman elabora il Mimosa, cocktail con rapporto paritario tra succo d’arancia e Champagne.

Molto tempo prima, nel 1786, a Torino, Carpano, già addizionava zucchero, erbe e spezie al Moscato bianco, gettando le basi per il Vermut moderno: un vino aromatizzato, oggi in grande spolvero, destinato a fare la storia del bere miscelato. E’ quindi a quest’intuizione che si devono le sorti di aziende come Martini, Cocchi e Cinzano, e di storici cocktail come il Milano Torino, l’Americano e il Negroni.

Il primo nacque intorno al 1860, nel bar Camparino del capoluogo lombardo, e bastò una lieve aggiunta di soda per tramutarlo nel secondo. Ben più accidentata la genesi del Negroni. La tradizione fissa la sua nascita nel 1919, quando il conte Camillo Negroni si fece modificare dal barman del celebre caffè Casoni, un Americano, sostituendo il seltz con un pò di gin. Il cocktail ebbe un enorme successo e prese il nome dell’elegante conte. Una versione meno accreditata fa arretrare la ricetta del Negroni di 50 anni. L’inventore, secondo gli attuali discendenti, era Pascal Olivier, conte di Negroni: pare avesse inventato la ricetta per lenire le insofferenza della moglie.

Il rapporto tra Negroni, Milano e baristi, d’altronde è ricorrente: basti pensare al Bar Basso dove, nel 1972, il barman, tirando su al posto del gin uno spumante, tramuterà un errore in un nuovo mito: lo Sbagliato.

A insidiarlo arriverà lo Spritz. Nato alla fine dell’Ottocento a Venezia, quando la Serenissima faceva ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, era il frutto della naturale predisposizione dei soldati imperiali di allungare i vini bianchi del luogo con l’acqua gassata. Non una qualunque, almeno all’inizio, ma quella di Selters, piccola cittadina dell’Assia, dotata di una forte anidride carbonica. Da qui l’origine dell’arcinoto seltz, un tempo imprigionato in splendidi e affidabili sifoni di cristallo lavorato, soprattutto di Boemia, e oggi rinchiuso in più prosaici contenitori di plastica.

Lo Spritz ha poi finito per arricchirsi fino a diventare l’attuale combinazione di bitter, vino bianco e seltz. Un accostamento dei tre ingredienti tutt’altro che pacifico. I puristi lo vorrebbero con un vino bianco fermo, mai con il Prosecco. Tra i bitter poi, Aperol e Campari fanno la parte del leone, tuttavia i più originali giurano fedeltà alla china martini mentre i veneziani vedono solo Select.

Mito d’oggi, la bandiera di questo bere vive le contraddizioni e le inevitabili pose del successo che ha riscosso. Un mito, quello del vino miscelato il cui il valore aggiunto è quel pizzico di storytelling unito al fascino del territorio che solo il vino riesce a evocare in qualsiasi bicchiere, destinato un giorno a prendere posto, come altri prima di lui, nella teogonia dei cocktail.