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I vini vulcanici: l’anima del fuoco nel calice

Ci sono vini che raccontano una storia. E poi ci sono quelli che la incarnano. I vini vulcanici non si limitano a riflettere il terroir da cui provengono: lo evocano con forza viscerale, con quella tensione tra vita e distruzione che solo la terra forgiata dal magma può offrire. Bere un vino nato su un vulcano è come camminare a piedi nudi su una colata lavica secolare: si sente il calore sotto la cenere, la forza silenziosa di un suolo che non dimentica.

Non si tratta di moda – o almeno, non solo. I vini vulcanici stanno conquistando sempre più spazio nei calici degli appassionati perché rispondono a un desiderio di verità, di profondità, di radicamento. Vini leggeri ma intensi, minerali ma non duri, vivi, capaci di emozionare senza bisogno di eccessi. In un’epoca di omologazione stilistica e varietale, è un ritorno all’origine.

Oltre la terra: l’identità che nasce dal fuoco

A fare la differenza non è solo il suolo, ma la sua origine geologica. I terreni vulcanici sono una sinfonia di elementi contrastanti: sabbie leggere e ceneri nutrienti convivono con colate laviche compatte e impenetrabili. La vite, costretta a penetrare in profondità per nutrirsi, si tempra e restituisce uve concentrate, mai banali, spesso sostenute da una freschezza naturale e una spinta salina che si ritrova nel calice.

In molti di questi territori, le condizioni uniche del suolo – sciolto, sabbioso, drenante – permettono ancora la coltivazione della vite a piede franco, non innestata, quindi non contaminata dal portainnesto americano imposto dalla fillossera nel resto del mondo. È una rarità, una voce pura, che aggiunge al vino una dimensione storica e aromatica irripetibile.

Il risultato sono vini con una forte impronta territoriale, dove si avverte il battito del suolo. Non è un caso che molti dei produttori più interessanti d’Italia abbiano scelto di lavorare proprio su questi suoli, sfidando condizioni climatiche complesse, rese basse e vinificazioni spesso artigianali. Perché qui, il vino non si fa: si scopre.

Tre volti di un vulcano: estinto, quiescente, vivo

Il nostro Paese, con la sua natura geologicamente irrequieta, offre una mappa straordinaria della viticoltura vulcanica, che possiamo suddividere in tre grandi famiglie: vulcani estinti, quiescenti e attivi.

Nei vulcani estinti, come quelli del Soave, del Vulture o dell’Irpinia, la forza del magma si è sedimentata nei secoli, lasciando un’impronta sottile ma profonda. Qui il profilo è elegante, a tratti quasi timido, ma con una tenacia minerale che emerge nel tempo. Il Soave Classico, ad esempio, regala bianchi dal sorso lungo, teso, con quella nota fumé e quella vena sapida che incanta. Sul Vulture, invece, l’Aglianico trova una versione austera e stratificata, con tannini cesellati e una freschezza vulcanica che accompagna il vino per decenni. Nella zona vulcanica di Taurasi, l’altitudine e i venti freddi, regalano all’aglianico grande finezza nonostante la potenza.

Nei vulcani quiescenti, come Vesuvio, Campi Flegrei o Ischia, il profilo cambia: il paesaggio è ancora segnato da crateri e fumarole, l’energia è latente ma presente. Qui, la viticoltura si intreccia alla storia millenaria del Mediterraneo. I vini riflettono questa memoria: sono diretti, salmastri, vibranti. La Falanghina dei Campi Flegrei colpisce per la sua linearità marina, il Piedirosso vesuviano affascina per la sua fragilità strutturata, per quel frutto rosso croccante sorretto da una scia di cenere.

Poi c’è il vulcano vivo, l’Etna, oggi una delle zone più dinamiche del vino italiano – e non solo. Qui tutto è estremo: le pendenze, le escursioni termiche, la stratificazione dei suoli lavici, la varietà delle esposizioni. Coltivare sull’Etna è una scommessa quotidiana, e ogni vigna è un microcosmo. Il Carricante, coltivato soprattutto sul versante est, dà vita a bianchi verticali, tesi, capaci di un’evoluzione nobile, tra note agrumate, erbe officinali, idrocarburi e pietra focaia. I rossi, da Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, hanno una finezza inconsueta per la latitudine: eleganti come Pinot Noir, ma con il cuore ardente del sud. Il concetto di “cru” – qui chiamati contrade – ha un senso concreto e tangibile: pochi metri possono cambiare volto al vino.

La bellezza dell’instabilità

Ciò che rende i vini vulcanici così unici è anche ciò che li rende precari. La vite cresce su un equilibrio delicato, sospesa tra generosità e violenza. Le colate laviche, anche recenti, raccontano che il fuoco non è solo un ricordo: è una presenza. Eppure, proprio in questa tensione tra stabilità e rischio, tra morte e rinascita, nasce un vino che sa essere profondamente umano. Perché il vulcano insegna che nulla è eterno, che tutto cambia – e che nella mutevolezza si nasconde la verità.

Chi visita questi luoghi lo percepisce: la luce è diversa, i profumi più intensi, il vento più netto. La terra pulsa. È un’esperienza sensoriale che si riflette nel bicchiere: i vini vulcanici non sono solo buoni – sono vivi.

Un futuro che viene dal profondo

In tempi di cambiamento climatico, i territori vulcanici stanno diventando laboratori naturali per il futuro del vino. L’altitudine, l’escursione termica, la ricchezza minerale e la ventilazione costante offrono condizioni ideali per mantenere freschezza e complessità, anche in annate sempre più calde. Sono territori resilienti, proprio perché nati da eventi estremi.

Ma la sfida, per i produttori, è anche culturale. Raccontare questi luoghi significa restituirne l’identità senza addomesticarla. Significa accettare che la natura comanda, e che l’uomo può solo interpretare – con rispetto, ascolto, e un po’ di coraggio.

In definitiva, i vini vulcanici sono molto più di una categoria enologica. Sono una dichiarazione di autenticità, un modo diverso di pensare il vino: come espressione del tempo, del luogo, e del profondo.